di Ambra Sansolini
Introduzione
Abbiamo raccolto la testimonianza di una donna vittima di violenza domestica e stalking. Ci siamo soffermati sulla sua personale esperienza della denuncia-querela. In TV e in ogni dove, viene continuamente detto alle donne di denunciare, ma nessuno spiega loro cosa realmente troveranno dal momento in cui busseranno alla Caserma dei Carabinieri o alla Questura della Polizia. Per questo motivo, attraverso i recenti ricordi di chi ci è passata, vogliamo fare uno zoom su una situazione reale e drammatica, più della violenza stessa.
La donna da noi ascoltata, per motivi di privacy, verrà chiamata con un nome di fantasia, cioè Maria. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistite, è puramente casuale.
Maria ci ha accolti con il sorriso proprio di chi ne ha vissute tante, uno di quelli che farebbero uscire il sole anche nelle giornate buie e uggiose, tipiche del mese di Dicembre. Non ci vuole molto perché si apra completamente e il suo dolore trovi espressione in parole indelebili, come i segni lasciati dalla violenza.
Ciao Maria, quando sei pronta, iniziamo…
Sorride (n.d.r.) e aggiunge: «Credo di essere nata pronta».
Come già sai non ti faremo alcuna domanda sugli abusi che sei stata costretta a subire da parte del tuo compagno e attuale ex. Per cui cominciamo subito con la tua decisione di denunciarlo. Ci racconti com’è andata quella fatidica giornata?
«Era il mese di Novembre, ma stranamente c’era un sole che avrebbe scaldato anche i cuori più impauriti. Decisi di denunciarlo, perché non aveva smesso di maltrattarmi, nonostante la nascita di nostra figlia Valentina. Non si fermava neppure quando tenevo la bimba tra le braccia. Ho sempre sperato in cuor mio che cambiasse. In fondo un figlio cambia chiunque, ma non un uomo violento. Per cui capii che per il bene della bambina, dovevo lasciarlo; non potevo stare a guardare che crescesse in un clima di soprusi».
Questa dura scelta, l’hai maturata da sola o grazie a qualcuno?
«A sostenermi c’era la famiglia. Già ne avevo parlato con i miei genitori».
E come reagirono alla notizia che in fondo avrebbe cambiato la vita della figlia?
«Credo che non faccia piacere a nessun genitore, vedere che una figlia sciolga il proprio nucleo familiare. Ma quando oltre questa opzione, si prospetta una vita fatta di violenze, allora una madre e un padre che ti amano, possono solo appoggiarti. Nel mio caso, andò esattamente così: per quanto i miei fossero attaccati all’idea della famiglia unita, non fecero alcuna resistenza alla mia scelta. Si dimostrarono pienamente disponibili nell’aiutarmi in ogni modo, riaccogliendomi anche nella loro casa».
La denuncia-querela l’hai scritta da sola?
«L’ha scritta il mio Avvocato. Insieme a mio padre, andai da un legale e dopo avergli spiegato la situazione, questo ci prospettò subito la necessità di presentare una denuncia-querela scritta per bene. Fu molto chiaro nel suo messaggio: “Un Pubblico Ministero, una denuncia scritta senza termini giuridici, che lascino quindi presupporre dietro la figura di un Avvocato, neppure finisce di leggerla e l’archivia subito».
Fu poi il tuo Avvocato a depositarla direttamente in Procura?
«No, la consegnai io presso una Caserma dei Carabinieri».
E com’è andata la fase della consegna?
«Tenevo con me una cartellina in cui avevo addirittura fotocopiato la denuncia, in modo da averne già una copia per me. Camminavo saltellando, come fa un bambino quando è felice. Non sapevo che invece da quel momento in poi, sarei stata costretta a saltare per i numerosi ostacoli che avrei trovato lungo il mio percorso. Come entrai in Caserma, mi venne detto subito che dovevo aspettare perché questo tipo di denunce le prende solamente il Maresciallo. Mi sedetti così in sala d’attesa, mentre guardavo le foto appese sul muro. L’Arma dei Carabinieri mi trasmetteva una sicurezza tale, per cui sentivo nelle vene e nei nervi, scorrere il senso di Giustizia. Quando fu il mio momento, entrai nella stanza: il Maresciallo mi chiese subito quale fosse la questione. Gli spiegai brevemente la mia storia, mentre teneva tra le mani la denuncia, con una leggerezza che lasciava intendere la sua considerazione per quelle parole scritte. I suoi occhi scorrevano sui fogli, come quando si legge una favoletta. Leggendo i suoi gesti e le espressioni sul viso, m’irrigidii e mi sentii morire dentro. Avrei voluto scappare lontano. Iniziai a chiedermi tra me e me, perché mai avessi deciso di denunciare il mio ex compagno. Poi formulò qualche specifica domanda: “Come la picchiava precisamente? Calci, pugni, schiaffi. Cosa?” Fui dunque costretta ad entrare nel particolare. Mi tremava la voce e sentivo le gambe mancare. Più che essere compresa e accolta, ebbi l’impressione di fare un esame all’Università. Mi sentivo sotto indagine, come se una lente d’ingrandimento stesse ingigantendo ogni molecola della mia sofferenza. Dopo che con immensa fatica, ero riuscita a fare una descrizione dettagliata delle percosse, arrivò la frase del Maresciallo, che finì di gettarmi nel panico e nella disperazione: “Signora, ma lei lo sa che in una coppia ogni tanto qualche schiaffo può volare, sì?”
Maria, ti fermo un attimo, perché è davvero importante questo punto. Quale fu la tua risposta? Come ti comportasti dopo l’assurda domanda del Maresciallo?
«Non proferii parola. Quello che provavo, era peggio degli schiaffi e dei calci che avevo preso dal mio ex partner. Per un attimo, pensai pure che avesse davvero ragione il Maresciallo e mi sentivo una pazza, nello stare sul punto di sporgere una denuncia-querela per maltrattamenti in famiglia».
Come andò avanti il colloquio?
«Dopo quella frase che era arrivata come una doccia gelata, mi disse chiaramente che non avrebbe accettato la mia denuncia e che lo stava facendo per il mio bene, perché a mia volta, avrei potuto ricevere dal querelato, una denuncia per calunnia. “Capito Signora? Dopo davvero inizia il caos. Lei ora lo denuncia, poi lui denuncia lei. Si va a mettere solo nei guai. Dia retta a me , vada a farsi una passeggiata!”»
Immagino che tu non abbia accettato l’amorevole consiglio del Maresciallo e non sia andata a fare shopping. Cosa hai fatto invece, uscendo dalla Caserma dei Carabinieri?
«In lacrime telefonai ad un’Associazione che aiuta le donne vittime di violenza. Feci loro presente l’accaduto. Ero disperata. Mi sentivo tremendamente sola e impotente. Come quando stai in una stanza completamente buia, sei consapevole che ci siano delle porte per uscire, ma mentre stai per aprirle, si chiudono tutte, una ad una. Non intendevo più consegnare la denuncia-querela. Ero terrorizzata al solo pensiero di poter rivivere quella situazione davanti a perfetti sconosciuti in divisa. Mi sentivo in colpa per tutto, forse per il fatto stesso di essere donna. Perché sono certa che se fossi stata un uomo, non mi avrebbero trattata così…»
Alla fine sei riuscita a consegnare quella denuncia-querela?
«Grazie all’Associazione antiviolenza, riuscii a consegnare quei fogli con i quali stavo voltando definitivamente pagina nella mia vita. Mi accompagnò la loro Avvocatessa, in modo che non vedendomi più sola, forse gli agenti delle Forze dell’Ordine, si sarebbero comportati diversamente».
Andarono così le cose?
«Sì. In ogni caso, onde evitare altri problemi, ci recammo presso un’altra Caserma dei Carabinieri. Questo Maresciallo lesse velocemente la pratica, mise i timbri, le firme e ci congedò».
Cosa hai provato quando sei uscita dalla Caserma?
«Un senso di liberazione immensa. Piangevo e ridevo contemporaneamente. Abbracciai così forte l’Avvocatessa, che credetti di stritolarla. Ormai era tutto alle spalle. L’incubo era finalmente finito e stava per iniziare una nuova vita. Almeno così credevo…»
Perché, non fu realmente così?
«Affatto. Da lì iniziò la vera sofferenza, perché oltre al mio ex, dovevo combattere contro un intero sistema».
Quindi non ti sei sentita tutelata?
«Affatto. Sono passati nove anni da allora e solamente due anni fa, è stata emessa la condanna in primo grado».
Il processo ancora non si è chiuso. Ma almeno il tuo ex, ha smesso di compiere violenze nei tuoi confronti?
«No, anzi. Si è incattivito ancora di più. Ha persino usato più volte la mia denuncia, per recitare la parte della vittima, anche davanti alle Assistenti Sociali. Mi ha denunciata penalmente, naturalmente senza alcun seguito. Sono stata costretta a difendermi continuamente dai suoi attacchi. Ne ho subite di tutti i colori: mentre mi perseguitava, attuando il reato di stalking, mi portava in causa civile per altre assurde questioni inventate. Compiva delitti e intanto si serviva pure degli strumenti della Magistratura».
Hai accennato alle Assistenti Sociali. In effetti con il tuo ex, hai una figlia in comune. Com’è andata la vicenda dell’affidamento?
«Per raccontarla, ci vorrebbe una giornata».
Allora magari di questo ne parleremo domani. Ma relativamente al minore, come hanno valutato un padre prima imputato e poi condannato in primo grado per maltrattamenti in famiglia?
«Lasciamo stare. Dagli scritti delle Assistenti Sociali, venne fuori il ritratto del padre perfetto. Non so cosa ci sia stato dietro. Hanno dipinto un soggetto con una pagina e mezzo di precedenti penali e un processo in atto per maltrattamenti in famiglia, come un santo. Inutili sono state le mie continue richieste di aiuto. Sembravo Don Chisciotte contro i mulini a vento. Più facevo presente la realtà, più mi veniva ritorto tutto contro».
Riesci a farci degli esempi concreti? Cosa ricordi degli incontri con le Assistenti Sociali?
«Ricordo tutto, persino come ero vestita. Vi dico solo che il mio Avvocato mi aveva suggerito di andare a quei colloqui poco curata e abbigliata nel modo più semplice possibile, onde evitare invidia e competizione, visto che le “professioniste” erano tutte donne. Avete capito benissimo: invece di trovare sorellanza tra creature femminili, ero cosciente di affrontare delle iene in guerra con le donne. Nello specifico, ad esempio, se facevo loro presente che il mio ex veniva meno ad alcuni doveri materiali ed economici relativamente alla figlia, mi accusavano di essere una attaccata ai soldi. Quindi non potevo più chiedere ciò che spettava di diritto alla piccola Valentina, perché altrimenti mi avrebbero descritta quasi come la mantenuta che vuole fare la bella vita alle spalle dell’ex compagno».
Ma tu non eri sposata con lui giusto?
«Proprio così, non ero sposata. Per cui, ciò che doveva, era esclusivamente per il minore».
Un’ultima domanda, poi continueremo la nostra intervista in più riprese: dove sei andata quando hai chiuso la relazione e lo hai denunciato?
«Sono tornata a casa dai miei genitori».
Grazie Maria, per oggi è tutto.
«Grazie a voi per avermi dato la possibilità di raccontare la verità».
La storia di Maria è una storia di Verità. Riteniamo giusto usare la “V” maiuscola, perché di racconti sulle violenze domestiche, le aggressioni e lo stalking, ne sentiamo ogni giorno moltissimi, anche dalla stessa cronaca dei telegiornali o dei quotidiani. Sembra che tutte le vicende, riguardino esclusivamente la vittima e il carnefice. E invece ciò che conta davvero, è il luogo dove si muove l’aguzzino, che non è quello limitato alle mura domestiche: egli agisce tra le lacune del nostro Stato. Aumenta la sua violenza grazie agli “errori” delle Forze dell’Ordine, dei Magistrati e delle Assistenti Sociali. Oltre ai soprusi che una donna è costretta a subire da parte di chi diceva di amarla e invece fa di tutto per distruggerla, ci sono poi quelli compiuti da un intero sistema. La violenza sulla violenza.
Analisi del racconto di Maria
Dalle parole di Maria, abbiamo appreso come sia necessaria la figura di un Avvocato, anche per sporgere la denuncia-querela; è venuta fuori l’importanza di avere qualcuno che ci supporti nella fase dello scioglimento del nucleo familiare: una vittima di violenza ha bisogno di sostegno morale ed economico. Una volta che lascia la casa familiare, deve saper dove andare. Rivolgersi ad un’Associazione antiviolenza, diventa quanto mai fondamentale, per rialzarsi nei momenti in cui si cade, quando la forza cede il passo allo scoramento.
Appare chiaro e limpido come l’acqua, che liberarsi dalla violenza non sia facile, poiché per farlo, occorrono una serie di elementi che devono interagire tra loro: come tante perle di una collana. Basta che ne manchi solamente una, perché il cerchio non si chiuda e la donna resti in trappola. Ma la salvezza di una persona, non può basarsi sull’arbitrarietà dei singoli casi. Pensiamo a cosa possa accadere a una donna che ha deciso di lasciare il suo aguzzino, ma trova l’opposizione e il giudizio della famiglia di origine. Immaginiamo a cosa avrebbe potuto andare incontro Maria, se si fosse arresa all’ingiustificabile e assurdo comportamento del Maresciallo dei Carabinieri. E ancora chiediamoci: se non avesse avuto la casa dei genitori aperta e pronta ad accoglierla, avrebbe denunciato ugualmente il suo compagno?
Inutile credere che in Italia avere ragione ed essere la parte lesa, significhi ottenere Giustizia. Purtroppo non è esattamente così ovvio e scontato. La Magistratura è un labirinto tetro e pieno di ragnatele. Per quanto se ne dica, le cause si vincono anche con gli Avvocati bravi, ma il punto è che non tutte le vittime possono permetterseli. E poi ci sono dei così detti “buchi neri”, in cui avvengono cose davvero inconcepibili, come ad esempio le relazioni effettuate dalle Assistenti Sociali o la valutazione di una denuncia, da parte del Pubblico Ministero. Cosa succede se queste figure, sbagliano (con o senza volontà) qualcosa? Chi paga per loro? Pagano i più deboli: la donna vittima di violenza e i minori, se ci sono. Allora si ricomincia da capo e non se ne esce più. Ecco perché è giusto parlare di violenza sulla violenza. Se da un parte quindi, si rende necessaria un’adeguata preparazione dei professionisti nei vari settori, dall’altra sta a tutti noi, nel nostro piccolo, uscire dai pregiudizi sociali. Non è così irrilevante l’aiuto di un genitore,di un amico, anche di un vicino di casa. Perché quando una vittima arriva sfinita dalle violenze, basta un nonnulla per finire di distruggerla oppure per dare inizio al volo verso la Libertà e la Dignità.