di Ambra Sansolini
Le molestie sessuali sono state riconosciute come forma di violenza. È quanto accaduto al regista americano Weinstein. Il caso, iniziato attorno all’ex produttore di Hollywood, ha avuto un’eco oltreoceano fino ad arrivare nella nostra penisola. A seguito delle verità denunciate coraggiosamente da Asia Argento, sono state numerose le attrici e le show girl anche italiane, che hanno deciso di raccontare abusi e ricatti sessuali subiti nel mondo dello spettacolo. Una continua mercificazione del corpo femminile, che declassa in maniera mortificante tutte le altre qualità possedute da una donna. Un pregiudizio sociale al quale non è sfuggita alcuna : per diventare una star, devi starci. Questa l’equazione vincente per arrivare a carriere ambite e magari per coronare il sogno di una vita. Un diktat che ha costretto le vittime al silenzio, onde evitare le accuse disumane di chi da fuori era pronto a puntare il dito su di loro più che sul carnefice. “Però ci stava”, “piaceva anche a lei”, “l’uomo, si sa, è cacciatore”, “spetta alla donna rifiutare le avances”.
Sulla questione si è alzato un vero e proprio polverone: una sfilata di carri con “professionisti” in maschera. Alcuni uomini sono arrivati a parlare di una prostituta presente in ogni donna; altre donne hanno sparato sentenze orripilanti sulle loro “sorelle”, dall’alto di una santità di cui si sentono portatrici angeliche.
Rare le analisi vere e cristalline sul fenomeno, circa quello che sta dietro a una molestia: la manipolazione mentale e la pressione psicologica sembrano essere state dimenticate dalla maggior parte degli specialisti. Tutto ciò in nome di un’ideologia maschilista e medievale, che prevede la mortificazione del corpo e della bellezza femminile. Come se, colei che esalta il proprio aspetto fisico, non sia degna di rispetto. Un bivio davanti al quale le donne vengono messe costantemente e che sta alla base dei maltrattamenti in famiglia. Un celebre pezzo di Ligabue, intitolato “Quella che non sei” canta: “scegli o troia o sposa”, per ricordare alla donna di essere ciò che è veramente, senza accettare aut aut o compromessi.
La stessa idea della donna-oggetto, che regna nel mondo del lavoro, la troviamo all’interno dell’ambito familiare, dove alla base della violenza domestica e dello stalking c’è sempre il possesso e il controllo della preda. Per questo motivo, riconoscere le molestie sessuali e punirle a norma di Legge, potrebbe essere una piccola conquista per i diritti e la libertà delle donne.
I meccanismi che sono alla base delle vicende di abusi, raccontati dalle attrici, sono gli stessi delle vessazioni compiute da un partner o ex partner sulla donna: senso di colpa della vittima, vergogna per ciò che si è subito, solitudine e quindi silenzio. Ingredienti nocivi che purtroppo vengono ravvisati con difficoltà in entrambi i casi sopra citati, ma ancora di più quando si parla di molestie sessuali. In questa situazione gli inquisitori delle creature femminili accusano le medesime di denunciare i soprusi solo dopo molti anni dal loro accadimento. Il silenzio viene quindi interpretato come un escamotage per portare a termine l’obiettivo professionale e parlare solo in un secondo momento. Una lettura meschina e superficiale, che va contro i diritti femminili nel mondo del lavoro. Sembra quasi normale che per fare carriera devi vendere il corpo, tutt’al più potevi rifiutarti di farlo e quindi rinunciare alla professione. A quel punto avresti dovuto fare ritorno nel “focolare domestico”e magari ad aspettarti a casa avresti trovato il classico uomo-padrone, del tipo “stira le camicie e zitta”. Ecco il sottile ma potente legame tra molestie sessuali sul lavoro e violenza sulle donne. Un fenomeno sociale e culturale, che ha origini ancestrali e vede ancora l’uomo cacciatore e la donna preda. Una condizione femminile, dunque, totalmente passiva, poiché è il predatore a scegliere. Però all’improvviso, come per magia, colei che è scelta ha un margine deliberativo: dire no, rifiutarsi. La decisione della donna equivale a scegliere una delle due strade, imposte dall’uomo, sollevando quest’ultimo da ogni responsabilità, poiché in fondo il verdetto finale spetta a lei. Dopo questo breve lampo di azione, che in fondo serve solo a colpevolizzarla, la donna torna nella passività più totale e a lei spetta la sopportazione, la pazienza e la forza di reggere unita la famiglia.
Sarebbe invece ora di abbandonare questi pensieri primitivi e tornare a considerare l’uomo un animale più evoluto delle altre bestie e quindi capace di ragionare con il cervello, anziché con l’organo riproduttore.
Esiste la violenza sulle donne perché le nostre nonne vivevano con il motto “basta che torni” o con la fatidica frase “è la donna che fa l’uomo”.
Le vittime che si sono ribellate, sciogliendo il nucleo familiare e lasciando il carnefice, pagano oggi un prezzo enorme. Poiché ancora regna il pregiudizio che avrebbero potuto sopportare di più e tenere la famiglia unita.
Non facciamoci più trovare, quando se ne va. Senza sensi di colpa: poiché la creazione di un nucleo familiare è responsabilità di un uomo e di una donna.
“Sono una donna, non sono una santa” cantava Rosanna Fratello.
Ascolta la canzone di Luciano Ligabue “Quella che non sei”
Leggi il libro “Su ali di farfalla”: un romanzo che spezza pregiudizi sociali e culturali