Riprendiamo l’intervista a “Maria”. Attraverso il suo racconto, capiremo nella realtà, con quali figure “professionali” sia costretta a rapportarsi una donna che decide di denunciare le violenze domestiche, qualora abbia figli in comune con il carnefice. L’ex compagno di Maria, verrà chiamato R.
Maria, eravamo arrivate al punto delle Assistenti Sociali. Che impressione avesti di loro?
«La prima volta che entrai in quel reparto della Asl, ebbi l’impressione di aver varcato la soglia dell’inferno. Il primo impatto non fu affatto positivo. Si respirava un’aria di tacita sofferenza. Capii subito che mi ero andata ad affossare in un pantano…»
Come ti accolsero?
«C’era una Dottoressa, spettava a lei seguire il nostro “caso”. Io ero in sala d’attesa con mia figlia. Naturalmente appena uscì dalla sua stanza, ci sorrise e con quell’aria falsamente amorevole disse: “Sei tu la piccola Valentina, vero?” La bambina non rispose: a due anni ancora parlava poco e poi credo fosse anche agitata»
Ebbe così inizo il colloquio. Ce lo descrivi brevemente?
«Come prima cosa mise la bambina a giocare da una parte e fece una serie di domande sulla mia vita».
Domande di che tipo?
«Doveva avere ogni informazione su di me, per iniziare a sviluppare un profilo completo della figura materna. Mi chiese se lavorassi, dove, da chi fosse composta la mia famiglia, quale fosse la professione dei miei genitori etc. Poi una serie di domande invece furono rivolte al rapporto con il mio ex compagno».
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