di Ambra Sansolini
Introduzione
Nel nostro sito, così come nel romanzo “Su ali di farfalla”, abbiamo sempre sottolineato come a gettare le vittime di violenza nel baratro non sia tanto l’aguzzino, quanto un intero sistema che gli permette ogni losca azione. Se il carnefice venisse lasciato solo, non riuscirebbe a fare tutto il male di cui è capace. Gli organi preposti alla difesa delle donne tendone a colpevolizzare queste ultime, inscenando plateali ribaltamenti della realtà, dal macabro gusto narcisistico. Si vuole a tutti i costi colpevolizzare chi cerca di uscire fuori dal fango, colei che va avanti con l’anima dilaniata e nonostante i sogni spezzati. Tutto questo perché ormai sei etichettata come vittima e tale devi rimanere. Come se dovessi a tutti i costi pagare lo scotto di esserti innamorata un tempo di un essere maligno e/o psicopatico. Sembra che ad avere predominanza siano i diritti di un criminale senza empatia e dal cervello bacato, responsabile di avere massacrato la vita a creature innocenti, come donne e bambini. Non puoi definirlo mostro, non devi chiamarlo delinquente, perché altrimenti -poverino- patisce danni indecifrabili. E invece quelli della parte veramente lesa, che ruolo hanno? Allora fanno di tutto per tapparti la bocca, poiché il coraggio di gridare certe violenze fa paura. Fa paura all’abusante, ma ancora di più agli addetti ai lavori, che dovrebbero rimboccarsi le maniche e fare finalmente giustizia. Così, anziché sanare i buchi neri di un meccanismo che non tutela a dovere le vittime di violenza, diventa più facile accusare quelle stesse, metterle sul rogo come le streghe.
Il diritto alla vita
In questi giorni nella capitale si è scatenato un putiferio per un cartellone pubblicitario contro l’interruzione volontaria di gravidanza, immediatamente rimosso dal Comune di Roma. Tale azione ha provocato le polemiche di alcuni partiti politici e altre associazioni, che si sono indignati a tal punto da parlare di libertà di pensiero sfregiata. Senza entrare nel nodo della questione e a prescindere da quale sia il nostro pensiero circa la legge dell’aborto, entrata in vigore nel 1978, viene spontaneo chiederci: perché tanto risentimento per la foto di un feto di undici settimane e nessuna pietà per le donne vittime di violenza? Possibile che l’Italia sia un paese così ipocrita da parlare di “diritto alla vita”, relativamente a una creatura che ha conosciuto solo quella intrauterina e non riguardo a una persona maltrattata, perseguitata o schiacciata da un uomo? Con tutte le cose urgenti che bisognerebbe fare, come può diventare prioritario un episodio simile? Il punto è che si preferisce parlare di aria fritta, anziché adoperarsi in modo concreto per cause più importanti. Una volta i politici proponevano delle leggi, oggi scrivono post su Facebook oppure i tweet, con i quali trascinano scaltramente la massa in commenti inutili e senza conseguenza. Lo scopo è sviare il popolo dai temi importanti e cercare di conquistarsi qualche favore con un finto buonismo e un’ipocrisia che fanno accapponare la pelle. Il risultato è che gli individui discutono tra loro su argomenti fuorvianti da quelli veramente centrali. Finiscono per dimenticarsi dell’alto tasso di disoccupazione, della violenza sulle donne, che sta facendo strage come una guerra, dei bambini ingiustamente sottratti alle famiglie di origine, della “giustizia” minorile, degli innocenti fatti capro espiatorio per sanare ambienti loschi e marci. Il dramma è che siamo continuamente manipolati. Abbiamo spesso parlato della violenza psicologica del carnefice, ma il guaio è che la subiamo ovunque: in TV, sul lavoro, dai mass media. Nessuno sposa più la Verità e chi lo fa, viene etichettato come folle e/o relegato ai margini della società. Dobbiamo essere “social”, non intelligenti e quindi capaci di ribellione. Tutto ciò, perché si vive secondo il consenso degli altri, che non puoi ottenere andando controcorrente. Contano i like, i follower. Come se Gesù Cristo, con solo dodici seguaci fedeli, rispetto a noi fosse un disgraziato. Ha più importanza la quantità che la qualità. Ci illudiamo così di spadroneggiare il mondo, mentre diventiamo rotelle minuscole di un ingranaggio mostruoso. Torniamo invece a guardare il cielo e a sentirci parte dell’universo: solo questo ci renderà davvero liberi.
Quando la vittima deve passare per carnefice
Ha destato scalpore la lettera dei legali di Tavares a Gessica Notaro. Un episodio vissuto attraverso gli schermi televisivi, ma che accade continuamente alle donne vittime di violenza. Solitamente infatti, quando le superstiti tentano di riprendere in mano la loro vita, vengono intraprese dal carnefice azioni legali, atte a colpevolizzare l’ex compagna. Accuse calunniose, diffamazioni ai limiti della Legge, scritte scaltramente dall’avvocato di turno, che si venderebbe pure l’anima per i soldi. Non basta che un uomo abbia fatto di tutto per tarparle le ali. Con la complicità di un sistema malato, il soggetto violento tenta ancora di arginare la spinta per il volo della splendida farfalla. Fortunatamente non tutti gli avvocati si prestano a questo sporco gioco. In effetti, ci vuole una bella coscienza assopita per attaccare una creatura, già bersaglio di altre vessazioni. Ma qualcuno potrebbe obiettare che il mestiere dell’avvocato è quello: difendere anche l’aguzzino. Una triste verità, soprattutto qualora gli stessi difensori dei carnefici si esibiscano pubblicamente a paladini delle donne. Insomma, succede di tutto proprio là dove ci aspetteremmo, invece, un briciolo di lealtà e autenticità. Mentre la maggior parte delle denunce per maltrattamenti e stalking vengono archiviate, spesso con la scusa di mancanza di tempo e risorse giudiziarie, i tribunali diventano il palcoscenico di recite da cabaret. Il grido di aiuto delle donne resta inascoltato e il vittimismo pietoso dell’abusante appare degno di attenzione da parte dell’Autorità giudiziaria. Frutto di una mentalità ancora maschilista?
Sembra di stare immersi nel “sentimento del contrario”, teorizzato da Pirandello: l’episodio grottesco, architettato dall’aguzzino con il suo avvocato, anziché fare semplicemente ridere, finisce per provocare una certa compassione.
Spesso, le costruzioni mostruose del carnefice con il suo legale sono mirate a tappare la bocca alla vittima o in ogni caso a impedirle di gridare le violenze subite. Come diceva un saggio proverbio : “capo rotto e carcerato”. Oltre a tutti i danni patiti, alla fine la donna si ritrova anche a doversi difendere e/o giustificare.
Sembra quasi sia da colpevolizzare la forza di colei che, nonostante ogni avversità, ha ritrovato la gioia di vivere e di riacciuffare i propri sogni. Specialità di alcuni avvocati è attaccarsi ai cavilli, alle sfumature impercettibili, facendone poi un caso. Il tono usato in queste lettere o atti giudiziari è misto tra il commiserevole e il maligno sarcasmo: si configura pertanto una grave forma di violenza psicologica, sancita dalla Legge.
In che modo pensiamo di mettere fine alla violenza sulle donne, quando i primi a compierla sono gli organi addetti alla tutela?
Conclusioni
Finché i nostri politici saranno più impegnati a twittare che a mettere mano alla Magistratura, assisteremo a questi aberranti episodi. Intanto tutte coloro che, dopo aver rialzato la testa dai soprusi, si ritrovano ancora schiacciate da tali goffi tentativi di sopraffazione, devono trovare la forza di non farsi condizionare dalle sceneggiate narcisistiche. In che modo? Proseguendo per la loro strada. Come ha detto Gessica: «Non sto zitta, continuo a parlare».
Alcune donne stanno all’angoletto, ma molte di più sono quelle che, uscite fuori dal tunnel, hanno promesso di dedicare la loro vita per salvare altre sorelle. C’è chi lo fa ballando, chi scrivendo, chi ancora dipingendo. Ciò che conta non è il mezzo artistico tramite cui si esprime la carica interiore, ma l’essenza della stessa. È il messaggio che passa, a fare la differenza. La civiltà progredisce in questo modo: se non ci fossero stati gli storici a raccogliere i mutamenti sociali o i poeti a farsi
portavoce di determinati movimenti culturali, noi oggi non avremmo qualcosa di basilare da cui partire. Per conoscere la meta verso cui andare, bisogna prima sapere da dove si viene. Dunque,
per arrivare ad arginare la violenza sulle donne, occorre conoscere ciò che alcune di loro hanno subìto. Tentare di farle tacere, oltre che disumano e abominevole, è contro ogni forma di civiltà e libertà di pensiero.
Ci vogliono vittime a tutti costi, ma il vento sta cambiando: molte di noi gridano dignitosamente il loro dolore. Non smettiamo di farlo. Nessun cambiamento sociale è avvenuto velocemente. Ma del coraggio di Gessica e di tante altre donne, ne sta giovando ogni piccola creatura femminile che vede la vita. E siamo solo agli inizi.
La verità è che gli uomini violenti si mangiano il fegato e non sopportano di vedere la “loro” preda spiccare il volo, perché sono convinti di essere gli unici garanti della realizzazione della donna. E noi dobbiamo continuare a sbattere più forte quelle ali…